Un insolito resoconto dei quattro anni di viceregno del conte Filippo Ferrero della Marmora si può trarre dal registro contenente una copia delle lettere inviate al Viceré dal fratello Paoloi. Si tratta di una documentazione inedita che consta di 101 lettere scritte in un francese incerto da Paolo, ultimogenito di sette figli maschi nati dal matrimonio tra il marchese Francesco Celestino e Maddalena Gonteri di Cavagliàii.
La fitta corrispondenza copre l'intero periodo del governo della Sardegna del conte Filippo La Marmora: dal 1773, anno della sua nomina, al 1777 quando, rientrato in Piemonte, ottenne l'incarico di «Gran Mastro della Casa di S.M.», Vittorio Amedeo IIIiii.
Le questioni strettamente personali della famiglia Ferrero della Marmora si alternano, in queste missive, alle informazioni sulle vicende politiche dell'epoca descritte in una diversa ottica rispetto ai canali ufficiali.
La rilevanza di queste lettere deriva anche dalla posizione a corte per nulla marginale del suo autore che, per la carica svolta al servizio della reginaiv, riferisce fatti che trovano puntuale conferma negli atti stilati dalle Segreterie dello Stato sabaudo aggiungendovi elementi di natura più confidenziale che esulano dai carteggi ufficiali.
Si è pertanto scelto di utilizzare queste lettere per approfondire alcuni elementi che fungono da corollario al viceregno del conte Filippo Ferrero della Marmora. L'analisi comparata della documentazione presente a Cagliari, Torino e Biella ha consentito di elaborare un'interpretazione verosimile del passaggio di consegne dal Viceré Galleani Caisotti di Robbionev al conte Filippo La Marmora, evidenziando il peso del contesto internazionale e dei nuovi indirizzi di politica interna del nuovo sovrano sul governo della Sardegna. L'isola appare, in questo quadro, in una posizione molto meno marginale di quanto sia stato postulato da alcuni studi meno recentivi.
Come ha sottolineato infatti Gianfranco Tore nel saggio Viceré, segreterie e governo del territorio: i progetti di sviluppo agricolovii, nonostante gli spunti forniti negli anni Ottanta da Giuseppe Ricuperati al dibattito sul riformismo sabaudo settecentesco in Sardegnaviii, la storiografia sarda continua ad accusare i piemontesi di aver instaurato con l'isola rapporti improntati a un eccessivo dirigismoix.
I giudizi sul regno di Vittorio Amedeo III, salito al trono nel 1773 alla morte del padre Carlo Emanuele IIIx, non sono stati particolarmente benevoli specie per la sua scelta di farsi affiancare, nella Segreteria per gli Affari esteri, dal marchese Giuseppe Maria Carron d'Aigueblanchexi, precedentemente promosso da primo scudiere e gentiluomo di camera a ministro di Stato e sopraintendente dei regi archivixii.
Il primo a farne le spese fu il conte Giovanni Battista Lorenzo Boginoxiii, licenziato e sostituito nella Segreteria della guerra con il cavaliere Giovanni Andrea Giacinto Chiavarinaxiv, suo segretario di Gabinetto, al quale fu attribuita in via transitoria la trattazione degli Affari di Sardegna, fino a nuove disposizioni che avrebbero rimesso tale impegno alla Segreteria di Stato per gli Affari internixv. Dopo aver congedato nel mese di aprile il conte Giuseppe Lascaris di Castellarxvi, il 13 dicembre dello stesso anno, con la «giubilazione» del conte Carlo Filippo Vittorio Morozzoxvii, si concluse il cambio ai vertici dell’amministrazione dello Stato sabaudo.
Paolo, il 10 novembre, riferì che il Morozzo aveva domandato di potersi ritirare dalla Segreteria degli Affari interni senza avanzare alcuna particolare pretesa. Si diceva che sarebbe rimasto in servizio per l'intero mese e che, in seguito, il primo ufficiale della Segreteria Villa, avrebbe potuto reggerla fino a nuovo ordine. «Le Publique» rimpiangeva la perdita di quest'uomo onesto sostenendo che chi aveva retto una Segreteria poteva, ugualmente, reggerne due, così come fece a suo tempo con la Segreteria degli Affari interni e di quella degli Affari esteri «la grande tete» del marchese Carlo Vincenzo Ferrero d'Ormeaxviii.
Il riferimento a questo noto ministro non stupisce dato che la famiglia La Marmora era inserita nel partito di corte dei Ferrero d’Ormea, dei Lascaris di Castellar, dei Perrone di San Martino e dei Rorengo di Roràxix. «Quant à moi», commentò Paolo, «j'en suis faché pour les consequences, je me vante d'un bon patriotisme, a l'egal de tout autre, mais pour a present je ne voudres pas me faire martÿriser a propos de Botes»xx.
Ciò che interessa maggiormente nello studio di queste missive, è l'analisi dei retroscena che lo stesso Paolo effettua e i dati che emergono consentendoci di ampliare il quadro finora delineato dalla letteratura scientifica.
Il 16 novembre egli riprese il discorso sul cavaliere Morozzo che pareva persistesse nell'idea di andarsene tanto che Paolo non dubitava che alla fine del mese sarebbe tornato a Mondovì, dove aveva deciso di ritirarsi. Si diceva che avesse abbandonato l'incarico per motivi di salute, ma vedendo le cose volgere non più secondo la sua «fantasye», la stima accordata solo alla «Canaille»xxi, sentendo inoltre d'essere ostacolato in ogni iniziativa e avvertendo l'impossibilità di capire su chi riporre fiducia, si riteneva più probabile che volesse ritirarsi prima che le cose fossero peggiorate. Nonostante pareva gli fossero state fatte delle proposte sia per alleggerire il peso del suo servizio, sia in riguardo alla sua salute, e allo scoramento che manifestò di provare in tali condizioni, «il est toujours ferme qu'il ne veut ryen, qu'il n'a besoins de ryen, et qu'il ne sohaite ryen autre que de metre un interval entre la vye et la mort»xxii. Il conte Morozzo, ministro di stato e primo Segretario degli Affari interni fu l'ultimo dei grandi collaboratori di Carlo Emanuele III a lasciare il suo incarico nel dicembre 1773; al suo posto, nella Segreteria per gli Affari interni, il sovrano nominò il conte Giuseppe Ignazio Corte di Bonvicino dietro suggerimento del marchese d’Aigueblanche, «il quale aveva sperato di avere nel C. un collega mite e sottomesso, apparentemente a torto»xxiii.
La “corte alternativa” di Vittorio Amedeo III, così definita da Ferrone nel 1988xxiv, «non rappresentava tanto un’opposizione quanto una fronda in attesa che il vecchio re scomparisse e quindi lasciasse campo al figlio ultraquarantenne»xxv.
Paolo La Marmora, già nella prima lettera datata 21 ottobre 1773, fornì una vivace descrizione di questa “corte alternativa” al seguito di Vittorio Amedeo III, delle conseguenze dell'affermarsi di uomini come il marchese d'Aigueblanche e di quanto avvenne a Torino dopo la partenza di Filippo per Cagliari seguita alla nomina a Viceré. Al dettagliato resoconto della cerimonia del matrimonio di Maria Teresa, figlia di Vittorio Amedeo III, con il conte d'Artois, unione che l'intermediazione dello stesso Filippo aveva favorito, seguì un riferimento, solo in apparenza frivolo e di scarso interesse, al portaritratti in diamanti donato al marchese d'Aigueblanche dall'ambasciatore francese. Scrisse infatti: «je croÿ medÿocre attendu qu'on ne parle tres peux»xxvi.
Del resto che i rapporti con il barone Louis Marc Gabrièl d'Esguilly de Choiseul, ambasciatore francese a Torino dal 1765 e con il suo segretario, il cavaliere Louis Claude Bigot di Sainte Croix fossero tesi non vi è dubbio. Il Sainte Croix, nella sua nota Relazione del Piemonte pubblicata da Antonio Manno nel 1877, aveva tacciato d'incompetenza il primo Segretario per gli Affari esteri che, per tutta risposta, aveva tentato di allontanarlo da Torino. Il marchese Carron d'Aigueblanche riuscirà nell'intento solo nel 1776 mentre il piano volto a far richiamare a Parigi anche l'ambasciatore francese, con la convinzione che il nuovo Segretario degli esteri, il de Vergennes, non lo avrebbe ostacolato, non andò a buon fine. Queste mosse non fecero altro che accrescere il numero di nemici e di lamentele che decretarono, di lì a poco, la fine della carriera del marchese; nel 1777 fu difatti messo a riposo dallo stesso Vittorio Amedeoxxvii.
È possibile che Paolo La Marmora fosse interessato al destino dell'ambasciatore de Choiseul il quale, come il fratello Filippo durante il suo incarico diplomatico a Parigi, aveva trattato i matrimoni delle principesse sabaude con il conte di Provenza e il conte d'Artois e quello della sorella di Luigi XVI con il principe di Piemonte. Paolo riferì infatti, nella seconda lettera, che l'ambasciatore francese sarebbe dovuto partire per Parigi per cinque o sei mesi e aggiunse: «je sohaite qu'il reviene si sa lui fait plaisir»xxviii. Ancora non si sapeva se, in seguito, avrebbe ripreso il suo posto a Torinoxxix, tanto che lo stesso marchese d'Aigueblanche più volte domandò al conte De Viry di verificare se la partenza dell'ambasciatore da Torino fosse definitiva.
L'idea che il portaritratti fosse «medyocre» è ribadita nella lettera del 16 novembre: «il ne la fait voire a persone». Paolo riferì anche un altro increscioso incidente occorso tra i due ministri: l'ambasciatore di Choiseul si era visto restituire dal Carron d'Aigueblanche, accompagnato da un commento lapidario: «la chose etoit egalement indécente et pour celui qui donne et pour celui qui recevoit»xxx, un regalo consistente in due pezzi di tappezzeria di Gobelins. Questo fatto si concluse con la presentazione delle sue rimostranze oltre che al re di Francia, anche a Vittorio Amedeo III. Tali eventi, secondo il La Marmora, erano una chiara testimonianza del fatto che la «froideur» tra il marchese d'Aigueblanche e l'ambasciatore francese era aumentata così come la tensione tra il Segretario più vicino al sovrano sabaudo e gli altri ministrixxxi.
Diversi furono dunque i licenziamenti e i cambi d'impiego voluti da Vittorio Amedeo III e dal suo entourage. La situazione d'incertezza che si venne a creare nel passaggio del regno da Carlo Emanuele III a Vittorio Amedeo III è stata ampiamente trattata dalla letteratura scientifica. I riferimenti al conte Filippo Ferrero della Marmora sono invece solo frammentari e trascurano alcune considerazioni che gettano luce sui fatti che condussero al suo improvviso rientro da Parigi, dove ricopriva il ruolo di ambasciatore dal 1765, e alla successiva nomina a Viceré di Sardegna.
In altra sede ho proposto alcune ipotesi di ricerca concernenti l'effetto degli eventi del 1773 sul conte Filippo La Marmoraxxxii; ipotesi che trovano conferma nelle lettere analizzate in questa sede. Mi limiterò dunque a sottolineare il ruolo, nel suo richiamo a Torino, dell'appartenenza al partito di corte facente capo ai Ferrero d'Ormea, ai Lascaris, ai Perrone di San Martino sebbene, Filippo, non fu liquidato, nei primi mesi di governo del nuovo sovrano, come Giuseppe Lascaris e gli altri ministri. Tuttavia ancora più incisiva fu la situazione che si venne a creare a Parigi poiché i contatti con il conte di Broglioxxxiii, l'accordo sulla politica matrimoniale dello Stato sabaudo e di quello francese con il barone di Choiseul e dunque la conseguente rivalità con il marchese d'Aigueblanche, con il duca d'Aiguillon e madame Barryxxxiv, misero Filippo in una condizione di pericoloso isolamento in entrambe le corti.
La politica matrimoniale sabauda assunse dunque, nelle vicende legate al conte Filippo La Marmora, un ruolo preminente poiché ne determinò fortune e avversità. Se le trattative condotte dal conte per la conclusione dei matrimoni tra le figlie di Vittorio Amedeo III, Maria Giuseppina Luisa e Maria Teresa rispettivamente con i conti di Provenza (futuro Luigi XVIII) e di Artois (che diventerà re Carlo X) rinsaldarono il legame della famiglia Ferrero della Marmora con i Savoia, la questione del matrimonio fra il principe di Piemonte, il futuro Carlo Emanuele IV e la principessa Maria Clotilde Adelaide di Borbone fu caratterizzata da una lunga e controversa gestazione. Dall'analisi delle Istruzioni recapitate al conte De Viry, chiamato a sostituire il La Marmora in qualità di ambasciatore in Francia, scopriamo infatti che la condotta del conte Filippo era stata stigmatizzata per la mancanza di circospezione con cui pareva avesse condotto tale negoziazione. Lo si accusava in particolare di aver lasciato credere alla corte francese di aver ottenuto una promessa che vincolasse il principe di Piemonte a sposare Maria Clotilde Adelaidexxxv.
Nella corrispondenza tra il De Viry e l'Aigueblanche sembra che il richiamo improvviso del conte La Marmora a Torino si possa attribuire alla maldestra gestione del matrimonio tra la sorella del futuro re di Francia Luigi XVI e il principe di Piemonte. Tuttavia è possibile individuare altri fattori concomitanti che hanno inciso sulla decisione di destinare ad altra sede il conte Filippo Ferrero della Marmora e che mostrano uno stretto legame tra il peso esercitato dai partiti di corte, le decisioni politiche e il conferimento degli incarichi.
Scorrendo il lungo elenco di incarichi militari e diplomatici ricoperti dal La Marmora prima della nomina a Viceré si può avanzare un'ipotesi sulle ragioni che hanno indotto Vittorio Amedeo a destinare il conte in Sardegnaxxxvi.
Dopo aver frequentato, come molti giovani dell'aristocrazia sabauda, il collegio San Carlo di Modena, quello di Chambéry e la Reale Accademia di Torino, proseguì la sua formazione presso varie corti europee; Filippo seguì infatti il marchese di San Germano quando fu nominato ambasciatore per la sede di Parigixxxvii.
Da cornetta nel Reggimento Dragoni del Genevese nel 1734xxxviii, salì la scala gerarchica militare passando da luogotenente nel Reggimento Dragoni della Regina (1736)xxxix a capitano nel 1743xl e maggiore nel 1756xli, sempre dando prova del «nobile impegno» e dimostrando capacità nel «distinguersi, non meno colla sua applicazione, nel far uso del talento, di cui è dotato per la Militar Carriera, che con darci riprove del suo zelo, e valore»xlii come nelle battaglie di Camposanto (1743) e della Madonna dell'Olmo (1744). Filippo La Marmora venne dunque nominato nel 1760 «Ministro Incaricato d'Affari presso gli Stati Generali delle Provincie Unite»xliii e, di seguito, Luogotenente colonnello nel Reggimento Dragoni della Regina (1762)xliv e Colonnello di Cavalleria e Dragoni nel 1768xlv. Al primo impiego in ambito diplomatico in Olanda fece seguito la nomina a inviato straordinario presso la corte di Londraxlvi nel 1763 e il mandato in qualità di ambasciatore ordinario presso la corte francese nel 1765xlvii. Nel 1771 gli fu conferito il titolo di Ministro di Statoxlviii e quello di Cavaliere Gran Croce dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro nel 1772xlix. Giunse infine la nomina a Capitano generale e Viceré di Sardegna dal 1773 al 1777l e il grado di Maggiore generale di Cavalleria nelle Truppe del sovrano (1774)li.
La sua fu una carriera militare e diplomatica in continua ascesa che solo in apparenza può sembrare abbia subito un brusco arresto nel 1773 con l'ascesa al trono di Vittorio Amedeo III. L'interpretazione del suo richiamo a Torino e dell'immediata nomina a Viceré di Sardegna in termini di esilio per accondiscendere ai capricci del marchese d'Aigueblanche, si fonda sull'errata convinzione che l'isola fosse una destinazione punitivalii. La scelta dei candidati a rappresentare il potere regio tra diplomatici e militari giunti all'apice della carriera, fornisce una prova del fatto che la massima carica in Sardegna era attribuita tenendo conto di criteri meritocratici e delle necessità contingenti dell'isolaliii.
Questa ipotesi trova conferma negli eventi che sembrano aver determinato la conclusione del mandato del Viceré Caisotti di Robbione, predecessore, in questo incarico, del conte Filippo La Marmora.
È dalla terza lettera, datata 24 novembre, che Paolo iniziò a fornire alcune informazioni relative al viceregno del conte di Robbione e ai possibili avvicendamenti nella gestione degli affari relativi alla Sardegna per la quale, affermò, sperava si trattasse di qualcuno che ne avesse una adeguata conoscenza.
Il Robbione era atteso a Torino il 26 dello stesso mese e avrebbe alloggiato presso il Gran Ciambellano. Grande era l'impazienza e la curiosità sul modo in cui sarebbe stato ricevuto a corte e su quale sarebbe stato il suo incarico soprattutto perché, da una fonte che Paolo riteneva attendibile, pareva che il conte fosse «mal reglé en Sardaigne, qu'il y a en beaucoup de plaintes, et de representations, contre lui meme»liv. Nei carteggi ufficiali degli archivi cagliaritani e torinesi emerge in effetti un quadro piuttosto conflittuale dovuto alla reazione del ceto nobiliare alla promulgazione dell'Editto con cui furono istituiti i Consigli di comunità nel 1771.
L'Editto, introdotto sotto il viceregno del conte des Hayes, rafforzava le comunità rurali per contenere il potere baronale nelle campagne. Il provvedimento andava a modificare l'assetto istituzionale del Regno provocando una diffusa e violenta reazione aristocraticalv. Il Viceré Robbione, subentrato al des Hayes, tentò di contenere la protesta feudale senza tuttavia riuscire nell'intento.
Nel dispaccio del 20 febbraio 1773, il cavaliere Chiavarina, chiamato a reggere la Segreteria della Guerra dopo il licenziamento del conte Bogino, partecipava al Viceré, il conte di Robbione, la morte del re Carlo Emanuele III. Oltre a una dettagliata descrizione della dipartita del sovrano, il dispaccio contiene una chiara indicazione della condotta da tenere nei confronti degli Stamentilvi:
«Se mai si facesse in quest'occasione qualche discorso di tenuta di Corti», con l'intento di presentare una deputazione per rendere omaggio al nuovo regnante, «è intenzione di SM, che VE lo scansi affatto, e non vi dia ascolto»lvii. Ciò che si era tentato di scongiurare accadde: il marchese di Laconi, Prima voce dello Stamento Militare, presentò domanda al Viceré perché si creasse una deputazione da inviare a Torino per rendere omaggio al sovrano, così come si era sempre praticato nelle successioni al tronolviii.
Il Viceré Robbione, nei dispacci inviati a Torino, ribadì più volte che questo fosse solo un pretesto per fornire al re un quadro negativo sugli effetti del Regio Editto del 1771. Il desiderio di una convocazione formale dei Parlamenti del Regno creò non poche frizioni fra il Viceré e il ceto nobiliare sardo e spagnolo. Varie incomprensioni fra il conte di Robbione e il marchese di Laconi portarono quest'ultimo a rivolgersi direttamente al ministro a Torino all'insaputa del Viceré. Nonostante la contrarietà del conte di Robbione, il re concesse il permesso di riunire formalmente gli Stamentilix.
Alla fine di agosto il conte La Marmora, appena giunto a Torino, fu incaricato di andare in Sardegna a sostituire il Viceré Robbione al più presto «a motivo dello stato della sua salute e delle [...] circostanze domestiche»lx. Secondo le Patenti di nomina del Ferrero era stato lo stesso conte di Robbione a chiedere di terminare il suo mandatolxi; tuttavia, sembra si possa affermare che su questa decisione abbiano influito in maniera determinante i rapporti tesi del Viceré uscente con il ceto nobiliare locale.
Filippo La Marmora, in un'ampia memoria inviata al ministro Calamandrana, scagliandosi contro il parere favorevole alla congrega degli Stamenti per la nomina di un Deputato del Regno emesso dal Supremo Consiglio di Sardegna, difese la posizione assunta dal precedente Vicerè riconoscendone la lungimiranza nell'anticipare le lamentele verso l'Editto delle Comunità: «si verificò pienamente quanto aveva previsto, e quasi profetizzato il mio Sig.e Antecessore sulle rappresentanze riguardanti specialmente l'Editto delle Comunità, egli altri varj oggetti o strani, o pregiudiciali al ben pubblico, o inutili o calunniosi». Il Viceré La Marmora era consapevole del rischio che avrebbe corso nel contrastare, come fece il Robbione, l'aristocrazia del Regno: «so quanto al mio Sig.e Antecessore sia costato l'essersi opposto per quanto poteva alle rappresentanze, e so di quante maldicenze e calunnie, e per fino imprecazioni sia stato con mille rigiri caricato». Pur prevedendo che anche lui sarebbe incorso nei medesimi problemi, si rivolse al regnante sabaudo e al suo ministro con la speranza che non disapprovassero «l'ingenuità» nel mostrare i suoi «sentimenti» e che nulla, di ciò che aveva espresso, «traspirasse». Temeva infatti che le critiche espresse potessero giungere all'orecchio dei membri del Supremo Consiglio di Sardegna nei quali, evidentemente, non riponeva grande fiducia. Tale timore emerge anche dalla richiesta rivolta al Calamandrana e al sovrano di «comparare da se soli e decidere di queste cose per la più parte meramente politiche e non esporle alla revisione di chi avendone già dato il suo sentimento non sarà verosimilmente per recederne, e non potrebbe a meno per la natura di sua composizione di propalarle, se pur già non lo sono presentem.te almeno in gran parte»lxii.
Il conte Filippo giunse a tali considerazioni nel 1775, dopo circa due anni di viceregno. Prima che si manifestasse l'ostilità del ceto nobiliare locale, la nomina del La Marmora a Viceré fu infatti accolta con altrettanto entusiasmo della fine del mandato del Robbione.
Successivo alla prima lettera dell'11 novembre ricevuta dal conte Filippo che annunciava la conclusione del cerimonialelxiii «majesteux, mais fatiguant» dell'insediamento a Cagliari, Paolo impartì il primo consiglio al nuovo Viceré: «vous y trouves mieux vostre compte a vous arranger autrement» rispetto a quanto operato dal suo predecessore noto anche ai sardi presenti a Torino per i suoi «procedes Grimaceur». Gli stessi infatti ricordarono al Viceré Ferrero della Marmora, per il tramite del fratello Paolo, che era suo pieno diritto destreggiarsi in questo impiego nel modo che avrebbe ritenuto più opportuno senza dover necessariamente proseguire sulle orme tracciate dal conte di Robbione anche perché «touttes les lettres de la Sardaigne sonts joye» del suo arrivo «come et aussy du despart de l'autre».
Trova qui conferma l'ipotesi di un frettoloso richiamo del conte di Robbione a Torino ad appena due anni dall'inizio del suo viceregnolxiv, anche se questi eventi non sembra abbiano inciso sulla sua accoglienza a corte; tornato nella capitale del Regno fu nominato ministro di Stato e gli fu concessa una pensione di tremila lire. Si supponeva inoltre, riferì Paolo, che il conte avrebbe ricevuto una commenda di circa seimila lire e la possibilità di stabilirsi a Nizza come da lui richiestolxv.
Considerato il disegno di Vittorio Amedeo III di ammodernare l'esercito sia negli Stati di terraferma che in Sardegnalxvi, si può comprendere come la sostituzione del Robbione fosse la premessa necessaria per rasserenare il clima di tensione creatosi nell'isola con i ceti dirigenti locali e che il conte La Marmora fosse considerato il candidato ideale per gestire la delicata fase di passaggio e per l'applicazione delle riforme militari.
A pochi mesi dall'insediamento del conte Filippo La Marmora i sardi presenti a Torino e quelli residenti in Sardegna lodarono il Viceré per la sua capacità di destreggiarsi «en tout et par tout», riguardo alla capacità di fare eseguire gli ordini dati e all'abbondanza riscontrata nei rifornimenti di degli alimenti. Nel mese di dicembre il Viceré comunicò difatti a Torino di aver provveduto con un Pregone a regolamentare la professione dei «Trecconi», ossia i rivenditori di commestibili il cui numero si era moltiplicato così come quello di coloro che, sebbene non autorizzati, esercitavano abusivamente tale professione. Per «ingordiggia di enorme lucro», il popolo faticava a trovare vettovaglie come se realmente ve ne fosse la penuria e il loro prezzo era aumentato a dismisura. Alla notizia della convocazione della Giunta sull'Annona e del «solo essersi presentito che andavano ad emanare degli ordini sopra siffatta gente, comparve più roba in piazza, e fu meno sensibile il monopolio»lxvii. Nei primi mesi del 1774 il La Marmora informò il ministro che i provvedimenti presi «sui rigattieri» avevano fatto comparire sulla piazza una maggiore quantità di alimentilxviii.
Paolo La Marmora scrisse al fratello che gli era stato riferito che anche la giustizia e l'ordine parevano ristabiliti producendo effetti benefici sulla tranquillità e sul commercio del Regno. Maggiore però doveva essere la presenza sul territorio della cavalleria per porre un freno al banditismo e al contrabbando; così come sarebbe stato necessario intraprendere la costruzione di una più agevole via di comunicazione per Sassari «le quele feroit la fortune du Royaume de la Sardaigne»lxix.
L'approvazione per l'operato del Viceré venne confermata da Paolo nella successiva lettera del 16 marzo: «je puis par la presente vous confirmer plus solidement soyt par les lettres de la Sardaigne, que d'autre part, qu'on est fort content de vostre governement, en Sardaigne, et en Pyemont». Tali apprezzamenti avrebbero consentito al conte Filippo di condurre un «Vice Royaume heureuse». Paolo riferì inoltre al Viceré che anche la nobiltà isolana ne decantava le lodi, tanto che gli consigliò, per prudenza e per necessità, di non trascurare tale frequentazione poiché così avrebbe potuto prevenire l'insorgere di pericolose gelosie e approfittare di un ulteriore canale d'informazione sugli affari. Riteneva infatti che i subalterni tendessero ad addolcire o a nascondere i fatti al Viceré per poter agire e comandare a loro piacimento. Significativa è la conclusione di tali considerazioni: «en peux de mots, je pense que dans pleusieurs affaires vous pouvès faire revivre le gouvernement a la Rivarol, et y faire oublyer le governement Bonginiste» e «hoster tous le pedentisme»lxx.
Il riferimento al marchese di Rivarolo, Viceré dal 1735 al 1738, potrebbe essere dovuto non solo alla nomea del marchese ma anche alla parentela della famiglia Ferrero della Marmora con quella dei San Germanolxxi. Tuttavia non si può escludere che la stima per il Viceré Rivarolo dipendesse anche dalle misure adottate per la repressione del banditismo in Sardegna, problema che sembra essere ancora avvertito come pressante all'epoca del viceregno del La Marmora.
L'approvazione giunse anche dal Segretario della Guerra, il cavaliere Chiavarina che, durante un incontro con Paolo, ribadì: «le ho sempre detto che suo Fratello era superiore in tutto a quel Impiego»lxxii. Il sovrano sabaudo confidò in carrozza al marchese Ferrero che era molto più tranquillo riguardo alla Sardegna poiché iniziava a regnare più ordine e abbondanza, il contrabbando era diminuito notevolmente e molto si contava sulla «probité, et bon jugement» del Vicerélxxiii. Un discorso dello stesso tenore si era tenuto nella famiglia reale, informazione che gli era stata riferita «fydelement, et oubliquement» da persone vicine alla famiglia Ferrero della Marmora. Pari apprezzamenti provennero dal Supremo Consiglio di Sardegna specie in riferimento all'esecuzione di un'operazione che aveva condotto alla scoperta di un magazzino usato per il contrabbandolxxiv. La frequenza di traffici non concessi tra i «Legni Bonifaccini, Caprajesi ed altri» all'epoca del viceregno del conte La Marmora è testimoniata dalla richiesta avanzata dal Viceré, su istanza dell'Intendente generale, per l'estensione delle disposizioni previste dall'Editto regio del 1767lxxv. L'editto, relativo al contrabbando tra la Corsica e la Sardegna, prevedeva per tali imbarcazioni il divieto di «fermarsi in alcuna delle spiaggie, Rade, o porti spopolati dell'Isole, e Littorali sud.i». La rappresentanza dell'Intendente generale era volta a includere in questo divieto i litorali di Castelsardo, della Nurra e quelli delle isole intermedie esclusi dall'Editto perché non frequentati come quelli espressamente vietati. Una volta «scoperto il riferito abbuso», si rese necessario «il porvi riparo [...] poiché nel silenzio dell'Editto riguardo a d.e Isole non ardiscono li Guardacoste di fare alcun arresto fuorchè ritrovassero que' Legni carichi». Il Supremo Consiglio concluse il parere con la considerazione che non si poteva «declinare da un sì salubre provvedimento» per «la circostanza d'essere la vicina Corsica occupata dall'armi di Francia; sia per trattarsi di semplice estensione da aver effetto nel Territorio, e Litorale d'indubitata pertinenza, d'una Legge già anteriormente pubblicata, ed osservata, sia per non essersi fin'ora da S.M. riconosciuta per legitima posseditrice della Corsica la Corte di Francia»lxxvi. I rapporti con la corte francese erano piuttosto tesi. L'alleanza tra Parigi e Vienna sancita dal Trattato di Versailles (1756), la competizione tra Inghilterra e Francia, i comportamenti ambigui di quest'ultima nelle questioni relative alla Corsicalxxvii, alla Repubblica di Ginevra, allo smembramento della Polonia e alla politica della Svezialxxviii, mantenevano una tensione permanente fra le potenze europee pur non sfociando in scontro aperto.
Il controllo della Corsica e il problema dei confini con la repubblica di Genova, per le implicazioni dirette che avevano con il Regno di Sardegna, rischiavano di compromettere irrimediabilmente le relazioni già precarie con Versailles. Le mosse francesi, tese ad allontanare il Regno sabaudo dall'Inghilterra e dall'Austria e a distruggere l'autorità imperiale in Italia, si scontravano inoltre con la politica dei Savoia che, come l'Inghilterra, puntava alla conservazione dell'equilibrio in Europa e nella penisolalxxix. In tali circostanze erano dunque essenziali le doti diplomatiche riconosciute dal sovrano al conte Filippo.
La conferma della fiducia a lui accordata da Vittorio Amedeo III permase nonostante iniziassero a manifestarsi segnali contraddittori da parte dei sardi residenti a Torino. Paolo La Marmora definì il loro comportamento ambiguo poiché apparivano più silenziosi e se ne ignorava la ragione. Se ne poteva tuttavia intuire il motivo: «il sonts faches de ne plus avoire deux porte ouverte come ils avoient pour le passés; celle du Roy, et celle du Conte Bougin». Ritenne quindi che questa fosse la ragione del malcontento relativo alla nuova gestione degli affari relativi all'isola. Sovente difatti, specificò in seguito, i sardi tendevano a domandare molto ma non gli si accordava nulla di più di quanto concesso dal sovrano per il tramite di Cagliari. Questo riteneva fosse la principale causa del loro silenzio: «de se voir obbligès de passèr entierement par le Vice Roy, affaire très schoquant pour la vanité Espagnole». La nobiltà spagnola era difatti «titolare d'immensi feudi nell'isola […] Su 365 villaggi sardi, ben 191 erano infeudati a casate spagnole: circa metà della popolazione rurale dell'isola prestava servizi e versava tributi d'ogni genere a nobili madrileni e valenzani»lxxx.
Paolo La Marmora suppose che nel Consiglio di Sardegna, così come nella stessa isola, vi fossero due partiti: uno che puntava ad ottenere il necessario «come il est juste en tout pays qu'il sont a bon marché»; l'altro che tendeva invece esclusivamente ad arricchirsi. Per quanto sarebbe stato opportuno che prevalesse il primo, il secondo sembrava godesse di maggiore protezione.
Suggerì dunque al fratello Viceré, certo della stima che il sovrano sabaudo nutriva nei suoi confronti, di non preoccuparsi di guadagnare il gradimento di tutti i sardi, poiché nello svolgimento del mandato nessuno, tra i Viceré, «n'a reussy a les contenter». Il «plus regreté» era stato proprio il «Marquis de Rivarol, ainsy faire le Rivarol justice»lxxxi.
L'esistenza di una discordia tra i sardi presenti a Torino fu ribadita in agosto: «on les a assemblèe tous chez le Presid.e Sclarandy ou il y a eu une espece de Dyetine a la Polonaise, la quelle a fini près de meme». A Paolo La Marmora era stato riferito che, al termine dell'incontro, niente era stato deliberato poiché avevano finito col darsi torto a vicendalxxxii. Altre considerazioni sulla nobiltà sarda emergono dalla lettera del 13 settembre dell'anno successivo. Paolo riferì che erano stati accolti a Torino alcuni sardi, tra cui il duca dell'Asinara. «Ces Messieurs» aggiunse, conducevano in Piemonte una vita piuttosto ritirata, «ils sont sur leurs garde et […] un peux fÿer»lxxxiii.
Importanti cambiamenti toccarono direttamente il Supremo Consiglio di Sardegna: il Niger, nominato Primo Presidente del Senato così come «le Publique» aveva ipotizzato, ricevette l'incarico con Biglietto Regio separato per permettergli, nel contempo, di continuare a reggere il Consiglio fino a nuovo ordine. L'avvicendamento nel Consiglio di Sardegna con Giuseppe Della Valle, reggente la Reale Cancelleria dal 1768, non avrebbe dovuto modificare la situazione in maniera ragguardevole visto che gli era stato assicurato che si trattava di «un tres digne home»lxxxiv. Si sarebbe difatti trattato di una nomina ad hoc data la sua dimestichezza con i problemi dell'isola e la familiarità con la nobiltà sarda con la quale avrebbe potuto mediare per porre fine alla protesta feudalelxxxv.
Paolo concluse la corrispondenza del 1773 ringraziando il fratello per le buone notizie relative al marchese, il nipote Celestino Ferrero della Marmora, che sperava avrebbe tratto giovamento dal suo soggiorno a Cagliari dove aveva accompagnato il conte Filippolxxxvi come «aide camp»lxxxvii. Il riferimento al nipote ritornerà sovente in queste lettere indirizzate al Viceré e sarà proprio Celestino ad ereditare la ricca biblioteca creata dallo zio Filippo della quale resta un inventario nel testamento del marchese Celestinolxxxviii.
Nel mese di gennaio Paolo La Marmora confermò quanto già contenuto in resoconti coevi: con l'avvio del regno di Vittorio Amedeo III l'attività di consultazione divenne febbrile, molti erano i «congres, tous les jours quelque accomodement, ou quelque predite promossions»lxxxix. L'autore anonimo di una storia sui primi passi mossi dal nuovo sovrano sabaudo che si può presumere sia stata scritta contemporaneamente al dispiegarsi degli eventi, sostenne a tal proposito che dell'inizio «del Regno di Vittorio» non si poteva dire «né bene né male, poiché da tutti i congressi sinor tenuti, non si sa che sia uscita risoluzione alcuna»xc. Vittorio Amedeo aveva stabilito per ogni ufficio dei giorni stabiliti per la relazione degli affari; aveva fissato il lunedì e il giovedì per le udienze pubbliche per avere più tempo da dedicare alle riforme riguardanti l'ambito militare, «le quel affaire paroit qu'il occuperà pour long temps»xci. Nelle lettere successive e nei dispacci viceregi e di corte si torna spesso sulle novità introdotte in questo campo che risultano centrali soprattutto nei primi anni di regno del nuovo sovrano sabaudo. Proseguivano infatti i Consigli per lo studio e l'elaborazione delle riforme da attuare in questo settorexcii.
Il lavoro del sovrano sabaudo in quest'ambito era accompagnato dall'ignoranza dei suoi collaboratori che non erano stati messi a parte del piano generale. Il conte di Nangi si recava a prendere gli ordini alla Reggia di Venaria almeno due volte a settimana. Ritornato a Torino comunicava la volontà del re ai tre colonnelli: il Valet, il cavaliere Solaro e il conte di S. Sebastyen. Sembrava inoltre che Vittorio Amedeo III desse gli ordini a «morceaux» e che pretendesse dai suoi collaboratori la messa in atto di quanto stabilito senza che gli stessi conoscessero il progetto nella sua interezza. «Brefs» aggiunse Paolo La Marmora, «son grand projet est impenetrable jusque a present». Si sapeva tuttavia che la guarnigione inviata in Sardegna sarebbe stata composta da militari tedeschi. Rispetto a tale decisione Paolo si dichiarava d'accordo con il commento precedentemente fatto da Filippo La Marmora: «pas tant socyable et peut etre plus tranquille»xciii.
Era intanto attesa con impazienza a Torino la posta proveniente dall'isola per le notizie sull'incorporazione e sulla formazione del «Royal Allemande», la cui tabella sarebbe servita, secondo la convinzione generale, come modello per la Fanteria in Piemontexciv. Del mese di giugno 1774 è il biglietto regio relativo all'incorporazione dei due battaglioni di Zieten e di Brempt inviati in Sardegna per rilevare quelli della Marina e di Meyer, destinati il primo a guarnigione di Cuneo e il secondo a Nizza. Dalla loro unione sarebbe sorto un nuovo reggimento, il Reale Alemano, composto di tre battaglioni e quattro compagnie, ciascuno costituito da soldati tedeschi e svizzeri.
Nella primavera dell'anno successivo venne inviato al Viceré La Marmora un nuovo piano per la formazione delle truppe, il regolamento adottato per la progressione degli ordini e le relazioni tra gradi superiori e inferiori, le disposizioni relative ai congedi, il regolamento concernente la nuova uniforme e le distinzioni assegnate a ciascun grado. Seguirono di poco due regolamenti dei nuovi esercizi per l'addestramento della Fanteriaxcv. Nell'aprile 1776 il conte Filippo si occupò della formazione del Corpo dei Dragoni Leggeri di Sardegna, ripartito in quattro Compagnie che avrebbero costituito due Squadroni, dell'adeguamento delle disposizioni per la formazione del Plotone d'Artiglieria del Reggimento Reale Alemano a quelle date in terraferma per i Corpi d'Artiglieria e del Regolamento per le esercitazioni a cavallo della Cavalleria e dei Dragoni Leggerixcvi.
Varie furono dunque le disposizioni regie date al Viceré Ferrero della Marmora già a partire dal 1774 concernenti la formazione dei battaglioni, i regolamenti per gli esercizi di fanteria e della cavalleriaxcvii.
Con la lettera numero 19 del mese di luglio Paolo La Marmora inviò al fratello Viceré la Nota delle Promozioni del Senato compiute da Vittorio Amedeo III. In tale documento era indicato anche il nome del nuovo Reggente in Sardegna: il marchese di Clavesana. Paolo inoltrò al fratello la raccomandazione della famiglia Priocca, da cui proveniva la moglie del marchese, poiché si trattava di «un tres digne home, et très estimè dans le Senat»; aggiunse inoltre che, con ogni probabilità, entro un paio d'anni il marchese di Clavesana sarebbe stato posto «a la tete du Senat de Turin»xcviii.
Le altre promozioni attese giunsero numerose, per il paese e per le truppe, nell'agosto 1774 e secondo quanto riportato nella lettera del 31 agosto: «jusque a present a contenté tout le monde». Paolo si complimentò con il fratello Filippo per il «noveau Rangh» ottenutoxcix. Il conte Filippo La Marmora fu infatti promosso Maggiore Generale di Cavalleria nelle Armate di S. M. con Patenti del 16 settembre 1774. In esse venne messa in rilievo la lodevole carriera militare svolta dal conte «fin dai primi anni», soprattutto «nelle ultime due guerre, e singolarm.te alla battaglia di CampoSanto, ed all'attacco de' trinceramenti della Madonna dell'Olmo» dove fu evidente «lo strenuo suo valore»c.
Nel mese di settembre tuttavia, le nuove promozioni attese, non erano ancora state effettuate a causa dell'esosità delle spese necessarie a sostenerleci. Il 9 novembre Paolo La Marmora scrisse infatti: «come vous saurès et come vous pourès juger, les Fynances de cet annè sonts un peux en desordre et il y a toutte probabilité, qu'en comencement de l'annè on y donerà de l'arrangement»cii. Descrisse la situazione come caratterizzata da «boulverssement total, et une cryade universelle»; tuttavia i cambiamenti che toccavano le sedi diplomatiche e gli altri incarichi di rilievo, secondo Paolo, non dovevano stupire perché «dans les troubles present de l'Europe les changements des Ministres sonts des touttes consequence»ciii.
Anche la formazione delle truppe subì forti ritardi a causa dell'incorporazione del «Royal Grisons, et celle de Chablaix»; l'incarico di compiere quest'operazione era stato affidato al cavaliere Solaro e al conte S. Sebastyen. In seguito sarebbe stato realizzato il cambiamento totale «du Militaire», novità che avrebbe fatto «une sensations plus forte» di quella provocata dalla formazione del Battaglione «Royal Allemand en Sardaigne»civ. La Segreteria lo avrebbe presto informato delle numerose promozioni di «Collonels, LieuColo.s, et Major» e dei cambiamenti che avevano creato non pochi scompigli in ambito militare in Piemontecv.
Ad appena un anno e mezzo dall'insediamento al trono di Vittorio Amedeo III si manifestarono le prime avvisaglie che il marchese d'Aigueblanche stesse perdendo il favore del re. Indicato solo con le iniziali del nome nella lettera del 5 settembre 1774 indirizzata a Filippo, il marchese pareva vivere una sorta di isolamento a corte: «M.r D'A. n'est plus dans le meme assiete n'est plus si frequent a Moncalyè et ces relations sont plus courte, et sovent faites par l'Avocat Vuy, que le Publique le dit plus goutè par le Roy». Preso da molteplici affari, nessuno si recava a collaborare nella sua abitazione, né i ministri stranieri lo frequentavano più in pubblicocvi.
Procedeva invece favorevolmente il viceregno del conte Filippo La Marmora. È lo stesso Paolo a riportare le parole del Viceré: «je suis bÿen aise d'apprendre par vostre Lettre le bon estat de vostre santè, et que vostre Vice Roÿantè soÿt heureuse en tout, et par tout, par les soins que vous vous donès, et come vous reussirès a le soutenir, et a la faire respectèr». Anche la Segreteria della Guerra lodò l'operato del Viceré La Marmora e i sardi che risiedevano a Torino si dichiararono soddisfatti della sua amministrazione in Sardegna; persino l'ex Reggente la Reale Cancelleria, il cavaliere Della Valle, gli rese giustizia «dans tout les coins de la Ville»cvii.
Con l'inizio dell'anno 1775, proseguirono i cambiamenti nell'ambito delle Segreterie dell'amministrazione sabauda che avevano una diretta incidenza sul governo della Sardegna, la cui gestione sarebbe dipesa da due «chefs»: dal primo Segretario della Segreteria di Guerra, il cavaliere Chiavarinacviii e dal conte Cordara di Calamandrana nominato «pro Interim Reggente le Spedizioni di Sardegna»cix. Al cavaliere Chiavarina, segretario di Gabinetto di Vittorio Amedeo III, insieme al ministero della guerra, erano stati affidati in via transitoria anche la trattazione degli affari relativi alla Sardegnacx. Nuove disposizioni avrebbero rimesso tale impegno alla Segreteria di stato per gli Affari interni nel 1779, quando al conte Cordara subentrò il conte Corte di Bonvicinocxi.
Giunse intanto inaspettato, riferì Paolo La Marmora, anche il congedo di un «Segretaire Gharnÿe» della Segreteria per gli affari esteri, in servizio dall'epoca in cui era retta dal conte Lascaris, e il quale aveva seguito il conte De Viry nelle sue missioni diplomatiche in Inghilterra e in Spagna. Il segretario era stato congedato con una pensione annuale di 300 lire, senza che se ne sapesse la ragione, poco prima della partenza del marchese d'Aigueblanche e dell'avvocato Vuÿ per Chambery, dove si era spostata l'intera cortecxii.
Dal 3 luglio del 1776 Paolo La Marmora iniziò ad accennare alla fine del viceregno: «par vostre lettre du 7 juin j'apprend le bon estat de vostre santè, la quele j'espere continuerà de meme pour le cort cejour que je me flatte vous ferès encore dans ce Roÿaume»cxiii.
Nel mese di febbraio iniziò a circolare a Torino la notizia del richiamo nella capitale del conte Filippo entro la fine dell'estate. Tuttavia non pareva fosse già stato nominato un successore, motivo per cui Paolo affermò che non si dovesse dar credito all'informazionecxiv. Fu invece nel mese di maggio che ipotizzò la nomina a Viceré del conte Lascaris di Castellar. A Torino si iniziò infatti a vociferare che al Lascaris sarebbe stata affidata una qualche commissione; Paolo scrisse che non ne conosceva «d'autre convenable (qui puisse l'accomodèr) que celle de la Sardaigne». Sembra potersi inferire da questo commento il ruolo affatto secondario o avvilente della carica di Viceré spesso ritenuti erroneamente burocrati, meri esecutori delle direttive centrali. Tuttavia riferì che la nomina sarebbe stata forse ritardata per via dell'imminente parto della moglie. Si trattava ancora di informazioni probabili ma non certe, tanto che tutti erano piuttosto sorpresi «d'un si grand mÿstere»cxv. I dubbi sulla nomina del successore di Filippo La Marmora furono ribaditi nella lettera del 4 giugno, sebbene il Lascaris fosse ritenuto il candidato più probabile per l'impiego di Vicerécxvi.
La conferma della nomina del conte Lascaris quale successore di Filippo La Marmora giunse a fine luglio; il Castellar si sarebbe imbarcato alla volta della Sardegna verso i primi giorni del mese di ottobrecxvii. Il ritardo nella sua nomina, confermò Paolo, era imputabile alla richiesta rivolta a Vittorio Amedeo III dallo stesso conte Lascaris perché si attendesse, per la sua partenza, il parto della mogliecxviii. Nella centesima lettera inviata al fratello, Paolo La Marmora espresse la sua «grandes consolation» nell'apprendere l'annuncio dei preparativi per il rientro di Filippo dalla Sardegnacxix.
Dei primi mesi del 1777 è invece la lettera con la quale Paolo comunicò al Viceré suo fratello la «novelle de la relegazion» dell'avvocato Vuycxx. Il fatto che il richiamo da Parigi del conte De Viry fosse comunicato da Paolo al fratello il 2 luglio consente di ipotizzare che lo scandalo che travolse il marchese d'Aigueblanche, il conte De Viry e l'avvocato Vuy non fosse stato ancora reso noto. Il De Viry sarebbe stato rimpiazzato dal marchese di Scarnafigi, mentre avrebbe preso il posto di quest'ultimo il marchese di Vivalda che era in Olandacxxi. Un semplice riferimento a «l'histoire de Vuÿ _ Virÿ _d'Aigueblanche», senza purtroppo ulteriori approfondimenti è contenuto nella lettera del 10 settembre 1777, a conferma che in precedenza l'affare non aveva ancora provocato il clamore a noi notocxxii. L’influenza esercitata dal marchese d’Aigueblanche non era infatti destinata a durare a lungo; erano gli stessi homines novi come il conte Francesco Maria De Viry e l’avvocato Paolo Vuy che avevano decretato, insieme al Carron, l’allontanamento dalla Segreteria degli Affari Esteri di ministri del calibro del Lascaris e dei funzionari a lui legati, ad aver anticipato la fine del primo collaboratore di Vittorio Amedeo III. La scoperta di una corrispondenza epistolare segreta tra l’avvocato Paolo Vuy, primo Ufficiale e il conte De Viry travolse il Carron. Il malessere espresso dagli altri ministri, riassumibile nella descrizione lasciata da Cibrario per il quale il marchese d’Aigueblanche aveva nomea di soggetto caratterizzato da «un esprit confus, un style énigmatique, une élocution pénible et fatigante, nulle aptitude aux affaires, une présomption opiniâtre, des subtilités toujours fousses, une méfiance inquietè et chagrine, compagnes ordinaires de l’ignorance»cxxiii, inferse un ulteriore colpo alla sua già precaria reputazione. Non dissimile infatti il ritratto fornito da Nicomede Bianchi: «non aveva perizia di affari diplomatici; in lui l’ingegno era scarso: gli mancava l’abitudine del lavoro; non sapeva maneggiare scorrevolmente la penna, nel favellare, le idee gli uscivano accavalcate le une alle altre; nel trattare gli affari, sottilizzava come un teologo; ombroso e sospettoso, diffidava di tutti»cxxiv, condiviso da Carutticxxv e dal Deninacxxvi.
Si conclude infine con la notizia della consegna al nuovo Viceré, il conte Lascaris di Castellar, di un'ultima lettera contenente le novità sulla famiglia Ferrero della Marmora e sulla capitale del Regno sabaudo, quest'insolito resoconto del viceregno del conte Filippo Ferrero La Marmoracxxvii.
In questa sede sono stati presi in esame solo alcuni aspetti dell'attività politica del Viceré; quelli cui lo stesso Paolo ha prestato maggiore attenzione nelle sue lettere. Non sono inoltre risultate reperibili presso l'Archivio di Stato di Biella le risposte che Filippo ha inviato al fratello. Lo studio della corrispondenza, in parte viziata da questa mancanza, è stata dunque integrata dalla documentazione presente negli archivi cagliaritani e torinesi e dalla letteratura scientifica. Un'analisi completa delle riforme promulgate nei suoi quattro anni di governo, degli scontri con il ceto dirigente locale e un bilancio del suo viceregno richiedono necessariamente una trattazione a parte che mi ripropongo di presentare in un articolo successivo.
xviii Cfr. A. Merlotti (a cura di), Nobiltà e Stato in Piemonte. I Ferrero d'Ormea. Atti del convegno Torino.Mondovì, 3-5 ottobre 2001, Silvio Zamorani editore, Torino 2003.
xxxii Cfr. V. Masala, Il reclutamento del ceto dirigente nel passaggio da Carlo Emanuele III a Vittorio Amedeo III in Annali della Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Cagliari, Volume I, in corso di stampa.
xxxiii Dai documenti non risulta se il conte sia in realtà il conte di Boglio, della località nizzarda di Beuil, o un esponente della famiglia Broglia di Chieri.
xxxvi Cfr. anche V. Masala, Il Settecento e il vicerè Filippo in S. Cavicchioli (a cura di), Una famiglia nel Risorgimento. I La Marmora dal Piemonte all'Italia unita, edito per la Fondazione Cassa di Risparmio di Biella e Biver Banca da Eventi e Progetti Editore, Biella 2011.
lvi Il Parlamento erano l'organo rappresentativo dei ceti. Vi si riunivano gli esponenti dei tre Bracci o Stamenti: il militare, l'ecclesiastico e il reale. Cfr. M. Brigaglia, A Mastino, G. G. Ortu, Storia della Sardegna, Volume 4, Laterza, Bari 2002.
lix A.S.C., Regia Segreteria di Stato e di Guerra, I Serie, Volume 298.
lx A.S.C., Regia Segreteria di Stato e di Guerra, I Serie, Volume 42.